Andrea Lombardi è un giornalista d’inchiesta e su youtube cura un canale informativo nel quale, tra l’altro, vengono affrontati i casi della cronaca italiana che sembrano irrisolvibili, i cosiddetti “Misteri d’Italia”, attraverso l’analisi di fonti documentali, interviste a protagonisti per mettere in evidenza i fatti nudi e crudi delle varie vicende. In uno di questi video, dedicato alla strage di Bologna del 2 agosto del 1980, è stato protagonista Gian Paolo Pellizzaro, il quale è un giornalista, ricercatore e saggista, esperto di terrorismo internazionale e intelligence.
Consulente delle Commissioni parlamentari di inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi (XIII legislatura) e sul “dossier Mitrokhin” e l’attività d’intelligence italiana (XIV legislatura). Ha pubblicato tre saggi: Gladio rossa. Dossier sulla più potente banda armata esistita in Italia, Settimo Sigillo 1997; I segreti di San Macuto, intervista con il senatore Vincenzo R. Manca, Bietti 2001; Libano. Una polveriera nel Mediterraneo, Bietti Media, 2008. È autore, fra l’altro (a quattro mani insieme al magistrato Lorenzo Matassa), della Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980 (23 febbraio 2005).
La rivelazione di Marco Affatigato

Pellizzaro ha esordito raccontando che nel settembre del 1999 ha intervistato Marco Affatigato ( nella foto sopra) ex estremista di Destra esponente di Ordine Nuovo, il quale, ricorda il giornalista, ha avuto vari problemi con la giustizia ed è stato coinvolto in due depistaggi: uno riguardante il disastro dell’aereo Itavia precipitato il 26 giugno del 1980 e l’altro, appunto, la strage di Bologna. Pellizzaro ha puntualizzato che per questa intervista impose di procedere con domande e risposte scritte per evitare, che in un momento successivo, ci potessero essere fraintendimenti oppure puntualizzazione del tipo” non era quello che intendevo dire”. In quella intervista Affatigato rivelò di avere lavorato per qualche tempo anche per l’intelligence francese e, in effetti, lui nel 1980 era latitante in Francia, rivelando di aver saputo dell’esistenza di documenti della polizia segreta della Germania Est, la Stasi, i quali parlavano della presenza di una cellula terroristica palestinese a Bologna il giorno della strage.
Il giornalista puntualizza che all’epoca non aveva le conoscenze necessarie per confermare o smentire le dichiarazioni di Affatigato, le quali hanno rappresentato per lui, che da sempre si era occupato di questi argomenti, una novità assoluta. Egli, in quel periodo, era consulente della Commissione bicamerale di inchiesta sul terrorismo e le stragi e decise di sottoporre all’attenzione del Presidente e dell’ufficio di Presidenza della commissione il testo integrale del dattiloscritto delle dichiarazioni di Affatigato, il quale era stato da lui firmato pagina per pagina e non potevano, quindi, più essere smentite, “per valutare l’opportunità di fare accertamenti e verifiche su di esse dopo la loro pubblicazione sul numero di ottobre del 1999 della rivista Area”
E così nell’ottobre del 1999 iniziò un percorso istruttorio presso la Commissione stragi per cercare di capire se c’era o no una cellula palestinese a Bologna il giorno della strage. Pellizzaro ha rivelato a Lombardi che, da sempre, si è occupato di tutti i misteri d’Italia (dal caso Moro al caso Orlandi) e, facendo parte di commissioni parlamentari di inchiesta ha avuto la possibilità di consultare archivi particolari; inoltre ha fatto parte di alcune commissioni rogatorie andando all’estero al fine di ricercare nei dossier di altri Paesi le risposte che non si trovavano in Italia. Per la sua attività ha scritto molte relazioni dopo avere analizzato migliaia di documenti ed elaborati tecnici e ha sottolineato che, fino a quel momento, non si era mai imbattuto in nessuna fonte che parlasse di terroristi palestinesi presenti a Bologna il giorno in cui avvenne la strage alla stazione ferroviaria.
Secondo la tesi di Affatigato, dunque, la magistratura francese nell’ambito delle inchieste a carico del famoso terrorista internazionale Venezuelano Carlos, il cui vero nome è Ilich Ramirez Sanchez, aveva acquisito molti documenti dell’archivio della Stasi, la polizia segreta della Germania Est, i quali confermavano la presenza di una cellula terroristica palestinese a Bologna il giorno della strage.
L’intervista di Carlos

Dopo una discussione preliminare, ricorda Pellizzaro, l‘ufficio di presidenza della commissione stragi votò a favore dello svolgimento della ricostruzione dell’attività del terrorista Carlos (nella foto sopra) con le informazioni disponibili nel nostro Paese e di richiedere, tramite rogatoria internazionale alla Francia, la possibilità di ascoltare Carlos e acquisire i documenti di cui aveva parlato Affatigato nella sua intervista. La risposta delle autorità francesi fu positiva e il presidente della commissione affidò proprio a Pellizzaro il compito di redigere le domande da sottoporre a Carlos e il giornalista ricorda che, attraverso un avvocato italiano, Sandro Clementi, iniziò un rapporto epistolare con Carlos in carcere.
Pellizzaro puntualizza che nei primi mesi del 2000 si era in attesa di stabilie la data dell’audizione di Carlos, senonché il 1 marzo 2000 avvenne un fatto che il giornalista definisce “clamoroso”. Il quotidiano Il Messagero, su una intera pagina pubblicò una lunga intervista a Carlos nella quale rivelò che un compagno, ossia uno dei suoi uomini, era a Bologna in stazione con un bagaglio leggero al momento dell’esplosione della bomba, che provocò la strage. “Questa intervista fu un fulmine a ciel sereno” afferma Pelizzaro perché nessuno mai aveva parlato di questo e, secondo il giornalista, l’intervista voleva essere un mezzo attraverso il quale Carlos aveva voluto far sapere alla commissione di avere cose da dire sulle vicende legate alla strage di Bologna.
Per capire la statura del personaggio di Carlos, spiega Pellizzaro, è opportuno ricordare che era a capo della più importante organizzazione terroristica prima di Al Qaida denominata ORI (Organizzazione dei rivoluzionari internazionali) e il giornalista continua dicendo che la sua intervista ebbe una importanza fondamentale nello sviluppo degli eventi futuri, dal momento che, dopo di essa, i francesi negarono la possibilità di ascoltare il terrorista, per il venir meno delle condizioni di serenità, dissero. Per quanto riguarda la parte dell’acquisizione documentale della rogatoria i francesi risposero che avrebbero provveduto loro a fare una selezione dei documenti, che avrebbero potuto interessare la commissione nei modi e nei tempi che essi stessi avrebbero stabilito.
Pellizzaro fa presente che egli fece parte dell’ufficio stralcio della commissione stragi della tredicesima legislatura, che è quell’organo che ha il compito di adempiere a tutte le questioni amministrative legate alla commissione parlamentare, che cessa di esistere in coincidenza con lo scioglimento delle camere e in attesa dell’insediamento delle nuove. Nella quattordicesima legislatura non fu istituita una commissioni strage, ma una nuova chiamata ad indagare sul dossier Mitrokin, un dossier britannico sulla rete del KGB in Europa e Pellizzaro venne nominato anche consulente di essa e come primo atto assieme a un altro collaboratore dell’organo parlamentare di inchiesta , un magistrato di Palermo Lorenzo Matassa, chiese in forma ufficiale “se mai fossero arrivati i documenti dalla Francia relativi a Carlos”, ma la risposta fu sempre negativa” .
Matassa allora si relazionò con il magistrato di collegamento francese a Parigi, il quale affermò che i documenti erano stati inviati su incarico del giudice Jean Louis Bruguiere per le vie istituzionali attraverso il ministero degli esteri e ministero della giustizia al parlamento. Anche in questo caso, pur portando a conoscenza le dichiarazioni del funzionario francese, gli organi amministrativi della commissione negarono che i documenti fossero arrivati. A questo punto Matassa, che era a conoscenza delle procedure, si fece dare il numero di trasmissione dell’invio del dossier, che è un numero di protocollo ufficiale che non si può cancellare o distruggere, e solo, a questo punto, l’ufficio di segreteria della commissione il dossier è saltato fuori.
Il plico, rivela Pellizzaro, era già stato aperto e organizzato in fogli già spillati. Il documento della Stasi datato 18 gennaio 1985 definisce la organizzazione di Carlos “Separat”. Il giornalista rivela che il giudice istruttore francese aveva fatto un inventario dal quale si è potuto evincere che non mancava nessun documento, il quale delineava la struttura della organizzazione di Carlos: dimensione, i nomi dei quadri dirigenti e un elenco di 100 nomi relativi ai militanti più attivi.
La figura di Abu Aureh Saleh

Un nome molto interessante tra questi è quello di Abu Aureh Saleh (nella foto sopra) , giordano di origini palestinesi che viveva a Bologna ufficialmente come studente all’Università, in realtà, era il capo della rete clandestina del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina nel nostro Paese scelto personalmente da George Habash (nella foto sotto), capo dell’organizzazione.

Saleh si era installato in Italia all’inizio degli anni 70 e poteva disporre di un salvacondotto che gli era stato fornito ai tempi del vecchio servizio segreto militare (Sid) e con esso agiva impunemente nel nostro paese in un ambito di accordi tra il nostro governo e la dirigenza palestinese. Dal dossier ricevuto dalla Francia si evince che Saleh era in diretto contatto con Carlos attraverso una casella postale, la PI box 904. Questo collegamento, commenta l’ex consulente della commissione Mitrokin, è molto interessante perché dimostra il collegamento diretto tramite Saleh tra il FPLP e l’organizzazione del terrorista Carlos. il 14 novembre 1979 Abu Aureh Saleh venne arrestato per il suo coinvolgimento per il trasportato in Italia di due lanciamissili Sam-7 Strela, su cui rivendicò la sua paternità il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. I lanciamissili erano in un furgone intercettato dai carabinieri, dopo la segnalazione di un metronotte, nei pressi del porto di Ortona in Abbruzzo a bordo del quale si trovavano tre esponenti di autonomia operaia, i quali avevano con loro un biglietto con il numero di telefono di Saleh. La sera del 7 Novembre 1979 quando i tre autonomi vennero arrestati il fratello di Saleh, il cui nome è Samir, si trovava a Perugia, dove pure si trovava un cittadino tedesco Tomas Kram ufficialmente studente presso l’università per Stranieri di Perugia sospettato di essere un terrorista appartenente al gruppo tedesco chiamato “Cellule Rivoluzionarie”.
Il lodo Moro
A questo punto Pellizzaro puntualizza che lui ha sempre cercato di individuare “I fatti nudi e crudi” nella vicenda della strage di Bologna cercando di fare i collegamenti tra loro ricercando la causa e gli effetti di ciascuno impiegandoci, a volte, anni. Inoltre, sottolinea, che nella sua attività di ricostruzione degli eventi ha potuto registrare “coincidenze”, senza aver fatto mai un teorema o una distorsione della realtà degli avvenimenti. Questa puntualizzazione è ritenuta necessaria dal giornalista perché afferma che l’arresto di Saleh ha innescato una serie di eventi a catena, gestiti all’interno a livello di organi dello Stato a vari livelli, ma che all’esterno nessuno avrebbe mai potuto immaginare fosse possibile. Prima di tutto, l’arresto del palestinese provocò una crisi “diplomatica” tra un settore della nostra intelligence e la controparte della dirigenza palestinese perché l’uomo era al centro di un accordo del quale molti hanno negato l’esistenza non fosse mai esistito.
Pellizzaro racconta che dopo la carneficina di Fiumicino provocata da terroristi palestinesi del 1973 fu Moro a volere un accordo verbale, il cosiddetto “lodo Moro”, di non belligeranza tra Stato italiano e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) movimento membro dell’OLP. In pratica si garantiva libertà di azione nel nostro Paese agli uomini dell’organizzazione palestinese e in cambio c’era l’impegno a non effettuare operazioni terroristiche nei nostri territori. Incaricato di realizzare questo accordo fu un ufficiale dei carabinieri Stefano Giovannone (nella foto sotto) , il quale è stato accusato delle peggiori nefandezze, ma c’è da considerare che ci sono persone, che, in qualità di servitori dello Stato, eseguono ordini di organi gerarchicamente a essi sovraordinati.

E così tra il 1973 e il 1974 Giovannone pose le basi per questo accordo con la dirigenza palestinese. Come prova dell’esistenza di questo accordo, Pellizzaro cita il fatto che, al momento del suo arresto, a Saleh venne sequestrata una agenda, nella quale c’era sia l’indicazione della casella postale con cui intratteneva un rapporto diretto con Carlos, sia il numero di telefono dell’abitazione personale di Stefano Giovannone. Pellizzaro afferma ciò in quanto ha visionato i fascicoli del processo a carico di Saleh. L’arresto di quest’ultimo, quindi, provocò una gravissima crisi nei rapporti consolidati tra i nostri apparati di intelligence e una parte della dirigenza palestinese: in particolare per George Habash esso equivaleva alla violazione dell’accordo e, a questo punto, iniziò un braccio di ferro tra la sua organizzazione, da una parte e il governo italiano, dall’altra, con in mezzo la figura di Giovannone, che era capo centro dei servizi segreti italiani a sud di Beirut. I palestinesi pretendevano la scarcerazione del loro uomo o, almeno, la restituzione o il pagamento delle armi sequestrate. Chiaramente i servizi segreti si rivolsero al governo alla presidenza del quale, in quel periodo, c’era Cossiga, il quale non era disposto a trattare con organizzazioni terroristiche.
Nel frattempo, il processo per direttissima contro Saleh e gli altri elementi coinvolti a Chieti procedette in maniera autonoma da queste questioni e si concluse con la condanna del palestinese a sette anni di reclusione, nonostante le continue pressioni della organizzazione di George Habas, tra cui una lettera su carta intestata letta in aula e messa agli atti del processo. L’11 gennaio 1980, il giorno dopo il deposito della lettera del FPLP agli atti del processo di Chieti, Palazzo Chigi diramava una nota alle agenzie di stampa nella quale si dichiarava: “Nessun accordo è mai intervenuto tra il governo italiano od organi ordinari e speciali dell’amministrazione dello Stato ed organizzazioni palestinesi circa il deposito, il trasporto, il transito, la importazione, la esportazione o la detenzione in qualsiasi forma o per qualsiasi fine di armi di qualunque tipo nel territorio italiano da parte e per conto di organizzazioni palestinesi. Il governo italiano non intrattiene rapporti con il gruppo palestinese denominato FPLP”. Il comunicato del governo fu considerato dai palestinesi una dichiarazione di guerra.
A precisa domanda di Lombardi, Pellizzaro non ha elementi per affermare che Saleh fosse un membro organico dell’organizzazione di Carlos, ma le evidenze documentali provano che lui fosse un suo interlocutore privilegiato per quanto riguarda il territorio italiano.
L’allarme dell’Ucigos
Il giornalista continua rivelando che, nell’ambito del suo lavoro all’interno della commissione Mitrokin, ha avuto modo di esaminare il fascicolo personale di Saleh, nel quale notò un telegramma dell11 luglio 1980 classificato riservatissimo del direttore dell’Ucigos (oggi direzione centrale della polizia di prevenzione) Gaspare de Francisci indirizzato al Sismi e a varie questure el quale si diceva “Attenzione c’è la minaccia gravissima di atto ritorsivo da parte dell’Fplp”. De Francisci è l’uomo che, qualche anno dopo, avrebbe liberato il generale Dozer in Veneto quando venne sequestrato dalle brigate rosse, quindi, era un personaggio molto autorevole e fu convinto a lanciare l’allarme dopo avere valutato le informazioni di una fonte ritenuta affidabilissima gestita dalla Digos di Bologna. Nel 1989 un docente di storia dell’Università dell’Aquila Stelio Marchese scrisse un libro “I collegamenti internazionali del terrorismo italiano” nel quale rivelò che un ufficiale dei servizi di sicurezza si presentò in borghese ai magistrati della Corte d’Appello dell’Aquila, che avrebbero dovuto celebrare il processo d’appello a carico di Saleh e i suoi complici “chiedendo indulgenza per i quattro detenuti, al fine di non provocare rappresaglie sanguinose in Italia”. Pellizzaro ha riscontrato questa informazione parlando direttamente con gli interessati; il professor Marchese aveva ricevuto la rivelazione dal procuratore generale del capoluogo abruzzese dell’epoca, il quale ha confermato la circostanza pur non autorizzando a scriverne in merito. Nel 2014 il direttore della seconda divisione del Sismi ha confermato in una audizione come testimone presso la Procura della Repubblica di Bologna che fu lui a muoversi per chiedere clemenza per Saleh per cercare di rispondere alle veementi minacce provenienti dal Fplp. Dopo l’allarme di De Francisci il governo chiese lumi all’ambasciatore italiano in Libano, il quale era il destinatario della missiva del’ Fplp messa gli attin el processo di Chieti contro Saleh, Stefano D’Andrea, disse che non sapeva nulla della faccenda, precisando che essa era gestita in maniera del tutto autonoma e segreta dal capocentro dei servizi segreti a Beirut.

La presenza di Tomas Kram a Bologna il 2 agosto 1980
Un altro fatto incontrovertibile, afferma Pellizzaro, legato alle vicende legate alla strage di Bologna è che la mattina del primo agosto del 1980 viene fermato al posto di polizia di Chiasso sul treno numero 201 delle ore 10.30 proveniente da Karlsruhe un cittadino tedesco di nome Thomas Kram (nella foto sotto una fotocopia della sua carta d’identità) , il quale viene fermato e perquisito.

Questo perché il suo nome era iscritto nella rubrica di frontiera, il quale è un registro relativo alle persone, che devono essere sottoposte a controllo alle dogane per motivi di sicurezza nazionale. La sua iscrizione risaliva al maggio di quell’anno ed essa comportava due conseguenze: la perquisizione al momento del suo ingresso nel nostro Paese e la sorveglianza dei suoi spostamenti all’interno del territorio nazionale. Dopo il suo arrivo in Italia il dirigente del commissariato di polizia di Ponte Chiasso Dott. Marotta redige una relazione, che allega ad un telegramma, il quale viene spedito al quartiere generale della polizia di frontiera e all’ Ucigos, lo stesso ufficio che aveva lanciato l’allarme di gravi attentati nel nostro Paese l’11 luglio del 1980. Inoltre, la stessa relazione fu inviata alle questure di Milano e Varese. Quindi è oggettivo il fatto che Thomas Kram fosse a Bologna il giorno in cui avvenne la strage alla stazione ferroviaria di quella città. Altro fatto inconfutabile è che il 7 agosto del 1980 la Digos di Bologna incrociando i dati tra le presenze negli alberghi e nelle strutture ricettive della città e della provincia di bologna nei giorni precedenti l’attentato il 7 agosto del 1980 trova il nome di Thomas Kram e lo mette in relazione agli atti di polizia che avevano in archivio scoprendo che lui era già era già stato segnalato due volte dalla polizia tedesca perché sospetto terrorista. In particolare, Thomas Kram viene inquadrato come un il pericoloso terrorista al pari del suo collegamento diretto Johannes Weinrich, anche lui ex dirigente dell’organizzazione terroristica tedesca cellule rivoluzionarie, e braccio destro di Carlos. Quindi l’11 agosto dell’ottanta gli organi di polizia italiana ricevono queste informazioni dai loro colleghi tedeschi e vengono raccolte in documenti che la digos di Bologna ha messo agli atti e che sicuramente sono state trasmesse al capo della procura dell’epoca Ugo Sisti.
La vittima “scomparsa”

Nelle stesse ore scoppia il mistero della scomparsa di una delle vittime della strage ovverosia la giovane donna di origine sarde residente nel fiorentino Maria Fresu ( nella foto sopra con la figlia Angela) . Il 4 agosto del 1980 quando i genitori della Fresu si recano in obitorio per il riconoscimento del cadavere della figlia e della nipotina di soli 3 anni trovano soltanto quello di quest’ultima. Da questo momento si diffondono voci e lanci agenzie di stampa fino a che l’8 agosto dalla procura di Bologna fecero sapere che avrebbero cercato i resti della Fresu nelle 250 tonnellate di macerie della stazione trasportati in un’area militare vicino a Bologna.

A questo punto Pellizzaro rivela un particolare inquietante lunedì 4 agosto del 1980 l’inviato del Tg1 Bruno Vespa fa un collegamento in diretta dal luogo della strage e dietro di lui si nota che le macerie erano state già rimosse ed c’ erano già i bancali con i mattoni di laterizi per ricostruire e per rimettere a posto quello che si poteva mettere a posto. Pellizzaro fa notare che tecnicamente la scena del crimine non è mai stata sottoposta a sequestro giudiziario, l’area non è mai stata transennata. “La necessità di capire le caratteristiche dell’innesco della bomba avrebbe dovuto suggerire maggiore prudenza” – afferma il giornalista “-se è vero il fatto che per cercare di capire l’esatta composizione dell’ordigno e il suo meccanismo di innesco pochi anni fa gli inquirenti sono dovuti ritornare nell’area militare vicino a bologna a rovistare nelle 250 tonnellate di macerie della stazione distrutta dalla bomba per cercare di trovare dei pezzetti mancati relativi all’ordigno”.
“Questo che la dice lunga sulla saga degli orrori, che caratterizzano la vicenda giudiziaria relativa alla strage di Bologna”. È lapidario Pellizzaro il quale afferma che tutte le ipotesi e le piste di cui si legge nei documenti ufficiali non hanno alcun riscontro concreto, la presenza dei vari personaggi, che si ritiene coinvolti non è mai stata confermata in maniera oggettiva e incontrovertibile. I fatti nudi e crudi sono la sparizione del cadavere di Maria Fresu, mai trovato, la presenza di un personaggio legato alla organizzazione terroristica di Carlos e, probabilmente, la scomparsa di un altro cadavere perché un pezzo di volto trovato in mezzo alle macerie fu erroneamente attribuito alla Fresu e, di conseguenza, si presume che siano due i cadaveri di vittime della strage di Bologna scomparsi.

Il più grande mistero delle indagini sulla strage di Bologna
A questo punto si introduce quello che Pellizzaro definisce il più grande mistero relativo alle indagini sulla strage di Bologna. Si riferisce al fatto che il nome di Tomas Kram scompare dalle cronache giudiziarie relative a questo evento per ricomparire solo nel 2005 ad opera dello stesso giornalista, il quale ricorda che il 25 luglio di quell’anno nella veste di consulente della commissione Mitrokin fu delegato a svolgere ricerche d’archivio presso la Questura di Bologna. Dopo avere ricevuto i fascicoli richiesti egli scoprì subito un rapporto del Capo della polizia datato 8 marzo del 2001 e indirizzato al Questore di Bologna, il quale metteva in relazione il nome di Thomas Kram con il personaggio rievocato da Carlos nella sua intervista del 2000 ritenendo questo un collegamento significativo e importante ai fini dell’inchiesta e di promuovere tutti gli accertamenti per verificare se questa presenza poteva essere messe collegamento con l’attentato alla stazione ferroviaria.
Pellizzaro puntualizza che a livello di corpi di polizia e organi investigativi dello Stato era conosciuta la circostanza che ci fosse un terrorista tedesco legato a Carlos presente a Bologna il giorno della strage sin dal 1980, quando Kram fu intercettato a Ponte Chiasso. Dopo avere trovato la relazione del capo della Polizia Pelizzaro richiese il fascicolo personale di Tomas Kram e al suo interno c’era un copioso materiale di una storia mai scritta. Alla fine del 2000 l’autorità giudiziaria tedesca trasmise alle omologhe autorità italiane un mandato di cattura internazionale, corredato da un fascicolo molto corposo, nel quale erano contenute molte informazioni con i nomi di tutti i suoi contatti in Italia. A questa richiesta di arresto era seguito l’ordine rivolto ai vertici del Ministero dell’Interno di ricercare sul nostro territorio Kram e la sua rete di fiancheggiatori. Agli Interni verificarono le segnalazioni in Italia di Kram, tra cui quelle a Perugia e Bologna nei giorni della strage e, in particolare, verificano gli accertamenti di polizia a suo carico avvenuti tra il 7 e l’11 agosto 1980. Furono questi elementi a suggerire al capo della Polizia di inviare la relazione su Kram, ma di tutto questo niente è trapelato all’esterno. Quando la relazione del capo della Polizia fu trasmesso alla Procura di Bologna il pubblico ministero che lo ricevette a penna inserì in alto a sinistra la dicitura “suggerisco iscrizione al modello 45” cioè atti non costituenti notizia di reato e così è stato e in questo modo la relazione del capo della Polizia corredata dalla richiesta di arresto della magistratura tedesca e le informazioni ivi contenute non passarono al vaglio del Gip e tutto fu messo a tacere fino al 27 luglio del 2005 quando fu rivelata in seno alla commissione Mitrokin e finì su tutte le agenzie di informazione.
Pellizzaro ricorda che nel 2005 Kram era latitante da 18 anni (si consegnò alle forze di polizia l’anno dopo) e pone una serie di interrogativi
- se egli non c’entra nulla con la strage di Bologna perché la sua posizione non è stata chiarita con opportune attività di indagine nel momento in cui la richiesta era provenuta dal capo della Polizia in persona?
- perché nel centro elaborazione dati delle forze di polizia fu schedato come terrorista internazionale di estrema destra quando lui aveva l’estrazione diametralmente opposta?
- perché, quando ha avuto la possibilità del 2013 di raccontare la sua verità di reclamare la sua innocenza perché non ha dato nessun nominativo, numero di telefono o circostanza per ricostruire in maniera oggettiva e i suoi spostamenti dal momento del suo ingresso in Italia fino alla sua scomparsa dal nostro Paese?
Pellizzaro afferma che Kram ha mentito e messo in atto depistaggi circa la sua presenza in Italia nell’Agosto del 1980. Inoltre denuncia che in favore del cittadino tedesco si è messo in moto un meccanismo di protezione , che definisce di “soccorso rosso” per proteggerlo sin dal momento in cui si è costituito nel dicembre 2006. Da quel momento è stato, afferma “ sigillato in un sistema di protezione internazionale e in Italia molti suoi complici hanno lavorato alacremente per fornire lui un alibi totalmente falso”. Poi si scopre il fatto clamoroso che la sera di martedì 5 agosto 1980, tre giorni dopo l’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna, Thomas Kram, il terrorista tedesco delle Cellule rivoluzionarie (RZ – Revolutionäre Zellen) legato al gruppo Carlos, era a Berlino Est. Poche ore dopo arrivò anche Johannes Weinrich (alias Steve) per incontrarsi con Magdalena Kopp (Lilly) e Carlos. La notizia era annotata su una serie di documenti della Stasi, la polizia segreta della ex Ddr, e ritrovati presso gli archivi del BStU (Bundesbeauftragte für die Stasi-Unterlagen, l’istituto federale di Berlino che gestisce il patrimonio documentale della Stasi).
E lui ha continuato a ripetere, dice Pellizzaro, di essere andato a Firenze e a Perugia e poi in Costa Azzurra arrivando a negare che fosse lui ad essere entrato a Berlino Est la sera del 5 agosto 1980 nonostante il fatto che la polizia segreta tedesco occidentale abbia registrato il suo numero di passaporto, l’orario del suo arrivo la sua fuoriuscita da Berlino est da un altro valico qualche giorno dopo.
A questo punto Pellizzaro affronta il tema della deposizione di Kram di fronte agli inquirenti di Bologna il 1agosto del 2013, quando presentò una memoria difensiva che, a suo giudizio, è “un concentrato di menzogne preparata da più persone” Alla domanda di Lombardi sul perché sostiene che la memoria difensiva del tedesco era scritta da più persone Pellizzaro risponde che la Digos, nel momento in cui venne informata dell’ingresso in Italia di Kram e constatando che ad accoglierlo ci fu un nutrito gruppo di persone, chiese alla magistratura il permesso di intercettarlo. Esso fu concesso in tempi record e mentre lui stava in procura, la sua stanza d’albergo fu messa sotto controllo e così quando tornò fu oggetto delle intercettazioni della polizia.
Quindi Kram e le persone che stanno con lui vennero ascoltate e si scoprì che la sua memoria difensiva era stata elaborata da più persone in particolare da Guido Ambrosino, che è stato, negli anni, uno dei suoi fiancheggiatori più attivi; Pellizzaro lo definisce un giornalista residente in Germania che ha sempre permesso a Kram di fornire la sua versione dei fatti attraverso numerose interviste, nelle quali ha ripetute vicende e circostanze, che si sono rivelate false alla prova dei fatti. Inoltre, la memoria difensiva presentata da Kram in quella occasione presenta una versione manipolata del telex della polizia di Ponte Chiasso del 1 agosto 1980, che ricalca quella presente nella relazione di minoranza della commissione d’inchiesta Mitrokin. Pellizzaro ricorda che i commissari di sinistra di quella commissione presentarono una relazione nella quale si affermava che il telegramma della polizia di frontiera fissava alle ore 12 l’ora del fermo e della perquisizione di Kram a Ponte Chiasso. In questo modo veniva fornito al tedesco il gancio per crearsi un alibi circa la sua presenza in Italia in quei giorni. In effetti lui ha affermato che le lungaggini delle perquisizioni della polizia gli fecero sballare i piani di viaggio e, di conseguenza, per puro caso si trovò a Bologna in quei giorni. Un documento della Stasi del 23 luglio 1980, afferma Pellizzaro, inquadrava Kram nel ramo tedesco della organizzazione di Carlos, eppure si è cercato di negare questa evidenza, e, arrivando a manipolare il contenuto di un documento di polizia, in un contesto istituzionale si è cercato di agevolare in tutti i modi la sua costruzione di un alibi falso
Ritorna Abu Anzeh Saleh
Ritornando ad Abu Anzeh Saleh, Pellizaro rivela di avere scoperto il palestinese che era in contatto con Aldo Gentile, il primo giudice istruttore che stava impostando il processo sulla strage di Bologna e parla di una altra coincidenza inquietante. Il giornalista afferma che, nel ristudiare tutto il procedimento, scoprì che nel settembre 1981 il giudice titolare dell’inchiesta chiese ai giudici di sorveglianza de L’Aquila un’autorizzazione per Saleh, il quale all’epoca era sottoposto all’obbligo di firma, di andare in missione a Roma per motivi di giustizia. Questa circostanza è contenuta negli atti del processo ed è anomala, afferma Pellizzaro, anche per il fatto che fino a quel momento non esisteva nessun collegamento tra la strage di Bologna e i fatti di Ortona. Molti anni dopo sentito dall’antiterrorismo di Bologna e dal magistrato, che indagava sulla pista palestinese della strage, Gentile rispose che qualcuno gli aveva chiesto di procedere in questo senso con Saleh e lui ha eseguito gli ordini. Non ha voluto rivelare l’identità di questo fantomatico personaggio anche se gli inquirenti hanno un sospetto legato al fatto che la missione di Saleh a Roma coincidesse con un viaggio a Beirut fatto dallo stesso Gentile in quel periodo per seguire la cosiddetta pista libanese della strage di Bologna, che è tutt’altra cosa rispetto a quella palestinese.
La pista libanese

La pista libanese fu lanciata dal capo dei servizi segreti di Al Fathah e braccio destro di Arafat Abu Ayad (nella foto sopra assieme al leader del’OLP Arafat) , il quale in una intervista del 19 settembre 1980 attribuì la responsabilità della strage di Bologna a neofascisti italiani e neonazisti tedeschi addestrati nei campi delle destre maronite in Libano. Secondo Pellizzaro è questo il primo grande depistaggio attuato per impedire di scoprire la verità sui responsabili della strage di Bologna perché l’intervista di Abu Ayad, coincide con la trasmissione degli atti, secondo il vecchio rito di procedura penale, all’ufficio istruzione del Tribunale di Bologna del fascicolo della inchiesta sommaria da parte del Procuratore Capo Ugo Sisti recante la richiesta di continuare con il rito formale. Pellizzaro fa notare che ci vuole una raffinata operazione di intelligence per far coincidere i due eventi e, secondo la sua opinione, è un depistaggio, che nasce a Beirut, per assorbire l’attenzione del giudice istruttore del processo per la strage di Bologna totalmente su questa pista. Il capo dell’antiterrorismo sospettava che l’autorizzazione per Saleh per una missione a Roma della quale non si forniva nessun particolare fosse in realtà una copertura perché Gentile si portasse il palestinese con lui a Beirut per indagare sul versante falagista.
Quando fu ascoltato Gentile affermò di avere conosciuto Saleh prima del suo arresto e di averlo frequentato in maniera assidua, al punto di ricevere regalia da parte del palestinese. E, quindi, tirando le somme Pagliaro afferma che “il primo giudice istruttore del processo, il quale conosce di persona Saleh, si mette a seguire la pista palestinese lanciata da Abu Ayad, la cui intervista in lingua italiana su un giornale svizzero venne realizzata da Rita Porena giornalista militante italiana affiliata alla Fplp, che lavorava e risiedeva a Beirut, si è scoperto essere una fonte privilegiata di Stefano Giovannone, retribuita dai nostri servizio segreti attraverso i canali della Farnesina infiltrata negli ambiti della resistenza palestinese”.
E, quindi, il quadro che emerge negli ultimi tempi è che il giudice istruttore al quale è arrivata l’inchiesta in un momento in cui il capo dell’ufficio istruzione era assente ed era l’unico tra i più anziani presente e si autoassegnò il fascicolo, è risultato essere un assiduo frequentatore di Saleh.