Secondo uno studio dell’Eurispes il giro d’affari annuo delle mafie ammonta a 130mila miliardi di euro , di cui un terzo movimentato dalla ‘Ndrangheta Calabrese. Gran parte di questi guadagni è prodotta dalla droga, la quale ogni anno è sequestrata a tonnellate. Il resto, deriva dalle attività sul territorio, piccoli e grandi appalti o investimenti, che finiscono spesso per intercettare anche fondi pubblici. Il giornale La Repubblica ha dedicato un lungo longform sul tema ponendo l’attenzione sul fatto che negli ultimi anni le inchieste e indagini si sono concentrate sulla finanza (legale, paralegale e clandestina), la quale ha aiutato le mafie ad occultare le montagne di denaro derivanti dal traffico internazionale di droga, perché i carichi di essa regolarmente sequestrati sono centinaia eppure non è mai stata intercettata un’operazione di pagamento. Dov’è quel denaro?
Criptovalute e mafie
Per capire l’argomento è necessario abbandonare tutti gli stereotipi e i luoghi comuni che in genere sono associati alle Mafie. Se nel 2017 a San Luca, un paesino di duemila abitanti nel centro dell’Aspromonte, un giovane rampollo del clan Pelle, intercettato dagli inquirenti, si lamentava del fatto che i narcos brasiliani fossero arretrati per il fatto di non volere essere pagati in bitcoin, è tempo di cambiare la prospettiva con la quale ci si avvicina a questi argomenti. A rafforzare questo processo sono le risultanze di alcune indagini della procura antimafia di Reggio Calabria, la quale qualche anno fa, ha scoperto una specie di servizio di money transfer informale gestito dalla criminalità cinese capace di ritirare materialmente enormi somme di denaro e renderle subito disponibili dall’altra parte del globo. Come se non bastasse un anno fa il Cesi ha segnalato il fatto che i clan hanno utilizzato sempre più frequentemente i “monero”, una delle criptovalute più difficilmente intercettabili. Inoltre, i soldi delle mafie passano spesso attraverso i mixer, i quali nascondono all’osservatore quale siano le blockchain d’origine. “Ma tutte queste sono ipotesi perché non è mai stato intercettato nessuno di quei flussi di danaro.” scrive Repubblica, il quale cita un ex dissociato di ‘Ndrangheta, il quale racconta che negli anni 90 i narcos mandavano dall’ America tre chili di coca per un chilo di eroina raffinata dai calabresi. “Fai conto che facevano 100-120 chili al mese e la vendevamo a 67-70 milioni al chilo”. Considerando che sono passati 30 anni e che quel business non si è mai fermato la domanda è sempre la stessa: dove è il tesoro dei clan?”
“I soldi non tornano mai in Italia”
Repubblica scrive che il dissociato calabrese spiega che i soldi non tornano mai in Italia “perché se a una famiglia basta un milione non deve avere la disponibilità di dieci”; di conseguenza la maggior parte dei capitali delle mafie sta “in conti esteri in paradisi fiscali o investiti anche in Sud America stesso, in grandi catene di alberghi, in banche”. Se il soggetto in questione dica o no la verità, non è dato sapere però è un fatto che nelle inchieste di mafia gli istituti bancari ci sono entrati sin dagli anni Novanta, quando l’indagine della procura di Locri “Europa 1” svelò come la ‘ndrangheta avesse acquistato fabbriche, immobili, terreni, casinò e catene di alberghi nei Paesi dell’ex Unione sovietica “con la complicità”- scrivono il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e lo studioso Antonio Nicaso — “di funzionari di istituti di credito svizzeri, lussemburghesi e austriaci, tramite banche del calibro del Crédit Lyonnaise e della Deutsche Bank“. Negli anni successivi l’operazione “Artù” ha documentato le trattative dei clan con banche nazionali e internazionali per la monetizzazione di un certificato di deposito da 870 milioni di dollari emesso da Credit Suisse e intestato al dittatore indonesiano Sukarno e, recentemente, la squadra mobile di Palmi ha citato in una sua informativa dell’intermediario Roberto Recordare, mai fatto oggetto di misura cautelare, il quale, nel tentativo di monetizzare bond miliardari è stato segnalato in Malesia, Tagikistan, Turchia, Tunisia, Danimarca. Poiché i capitali sporchi per essere utilizzati devono essere lavati, il riciclaggio di essi è una attività essenziale per i clan e “questo succede, ormai innumerevoli indagini lo dimostrano, grazie alla complicità non solo di singoli bank officer infedeli, ma di interi sistemi finanziari che di quella liquidità hanno bisogno. E diventa un’arma”. Quando quel denaro è dentro banche, società di investimenti, esso matura interessi, viene usato per prestiti, costruzione di prodotti finanziari con cui intossicare mercati e società.

Nicolino Grande Aracri (nella foro sopra) , uno dei più grandi boss della ‘Ndrangheta spiega intercettato come funziona l’ operazione “Allora se tu hai una banca, se hai una linea di credito che ti blocca cinquecento milioni e te li manda in una banca, tu ti blocchi i 500 milioni (con un’operazione chiamata “blocco fondi” ndr) e poi io stesso la copro e li affittiamo sulla piattaforma, che a sua volta li affitta all’America, li affitta alla Russia, non li affitta a Piero, ma a uno Stato”, che non può fallire, ma da quella provvista finanziaria potrebbe essere influenzato, mentre gli interessi lievitano. “Ci sono certe banche che li moltiplicano per cinque volte”- sottolinea il boss, che soddisfatto dice: “Noi possiamo interferire nella Cina, nel Congo, nell’America, in Italia dove vogliamo, a livello bancario”.
La filiera del lavaggio del denaro sporco
La recente inchiesta “Glicine” della procura di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri per la prima volta, ha iniziato a individuare la filiera che permette il lavaggio del denaro sporco. I veri affari della Ndrangheta non sono in Calabria, ma in un mondo virtuale in cui si muovono cifre a sei o sette zeri, movimentate per il mondo, ripulite, fatte fruttare, rimesse in circolo. Gli inquirenti non sanno quante delle operazioni di cui hanno sentito parlare dettagliatamente siano andate a buon fine, ma adesso si inizia a capire il perimetro in cui i clan si muovono anche grazie agli hacker che ormai da anni reclutano. I canali sono sostanzialmente quattro — schede nere, conti dormienti «come quelli di Bin Laden», bank guarantees, blocco fondi e altre operazioni su piattaforme finanziarie segrete — e spesso si incrociano fra loro. Essi necessitano di hacker, trader, consulenti finanziari e colletti bianchi. Alcuni vengono da contesti di ‘ndrangheta, come Gennaro Pulice o Alfonso Diletto, imprenditore al servizio dei cutresi in Emilia, che per i pentiti “ha utilizzato false garanzie bancarie per accaparrarsi lavori in Africa, dove ha costruito strade, ospedali e appartamenti”. Altri sono dei professionisti della finanza, a cui non importa poi molto da dove arrivino i soldi e se dovessero essere scoperti, come nel caso in cui una maxi-inchiesta smantellò pezzi dell’impero dei Grande Aracri in Emilia-Romagna, gli investigatori li hanno sentiti ridere, perché la percentuale del 4% su ogni transazione milionaria li rende impermeabili al rischio di cui sono consapevoli. Pulice si è pentito e ha citato, durante i suoi interrogatori, i casi del Como Calcio, del Botev Plodiv e del Viren Sundaski, squadre di calcio che avevano necessità di fidejussioni o linee di credito per l’iscrizione al relativo campionato. In pentito ha spiegato che esse erano false: “ Le fidejussioni di cui sto parlando erano false: “In pratica si predispone una documentazione a garanzia che viene mostrata al funzionario di banca estero compiacente, che attiva la corrispondente linea di credito garantita”.
E poi ci sono gli hacker, altro nodo necessario. Al servizio dei papaniciari il Ros nell’indagine Glicine ne ha individuati almeno due. Si chiamano Salvatore Lumare e Mark Ulrich Goke, sono due signori di mezza età ed erano totalmente a disposizione del clan. Il loro ruolo? Fondamentale: bucano le procedure di controllo, trasferiscono garanzie bancarie fasulle, alterano i codici bancari e permettono di accedere e svuotare i cosiddetti “conti dormienti”. Lumare è l’esperto di schede nere, viene intercettato in mezza Italia mentre cerca di reclutare imprenditori da coinvolgere nell’affare. Goke però sembra un passo oltre. E all’ombra della sua “balia di ‘ndrangheta” Mario Megna ha pensato in grande. Secondo l’imprenditore e faccendiere tedesco Johan Mair , specialista nel confezionamento di falsi contratti e procure in grado di legittimare operazioni totalmente illegali, era stato in grado anche di costituire la sua propria banca “perfettamente operativa”. Per gli inquirenti, Goke “era stato individuato come il fulcro internazioale di queste operazioni miliardarie, capace di coordinare l’operato clandestino di banchieri tedeschi della Deutsche Bank e di imprenditori miliardari”.
Nelle foto sotto gli apparecchi che venivano utilizzati in modalità off line per bucare le banche: modificando
i codici di accesso, gli hacker effettuavano transazioni reali che però non risultavano nei database degli istituti di credito
in modo da renderle irrintracciabili

Una “valanga” di soldi
La valanga di soldi dei clan compra tutti: broker, trader, facilitatori, commercialisti, semplici faccendieri tutti accumunati da un elemento: non domandare mai da chi arriva il denaro. A decine sono stati a lungo ascoltati nell’inchiesta Glicine, la maggior parte sono stati identificati, alcuni formalmente indagati. Intercettato il broker Gaetano D’Amore (ndr, non indagato) si è vantato di vantarsi di poter attivare linee di credito in diversi istituti europei: “Li ho sia in Svizzera, che a Montecarlo e anche qualcuna a Londra sono già attive, le ho sia Zurich, Hsbc e in Barclays”. Egli è uno dei tanti reclutato da Salvatore Aracri, il “consulente finanziario” dei clan del crotonese.
Ad un primo livello ci sono i facilitatori, che si possono definire l’anello di congiunzione tra i trader e i clan, la cui presenza diventa superflua se i trader ed esperti della finanza sono già interni al clan. Uno di essi, Antonio Valerio, si è pentito e sta spiegando quali sono le strategie finanziarie di famiglie e casati di ‘ndrangheta. Una delle più semplici è la garanzia bancaria fasulla usata da tutti i clan.. “I Papalia” — spiega interrogato l’ex capolocale di Belvedere Spinello, Francesco Oliverio, oggi collaboratore — “mi confidavano di sapere che dietro l’attivazione di false operazioni bancarie per il rientro di capitali esteri spesso risultavano coinvolti i servizi segreti”. In più, aggiunge il pentito Pulice, “in Svizzera diverse cosche calabresi avevano studi di consulenza e/o faccendieri capaci di procurare fidejussioni” Alcuni, come Vincenzo Donato, stanno a Lamone, in Svizzera “vogliate considerare che è paese gemellato con Mesoraca, nel crotonese”.
Il meccanismo è stato individuato: si costituisce una rete di imprese, spesso fittizie, quasi sempre anonime ltd di diritto britannico, schermate da un trust o detenute a catena da altre ltd , che stipulano un finto contratto di joint venture per altrettanto inesistenti progetti. Un direttore di banca compiacente fa il resto: valuta quella spazzatura come oro colato ed emette la garanzia. È uno dei metodi, non l’unico. A volte, capita che la fidejussione, che spesso è un codice bancario, sia manomessa da un hacker. “L’importante” – sottolinea il commercialista del clan Grande Aracri, oggi pentito Paolo Signifredi — “è far sì che la banca ricevente attivi un credito da monetizzare”. Ne parla da esperto perché una fidejussione di 600 milioni fornita dall’HSBC di Londra, lui l’aveva utilizzata per i “debiti del Parma calcio”.
Le testimonianze di molti colletti bianchi diventati collaboratori convergono nel rivelare che per rendere credibile l’operazione “viene costituita anche una fondazione o una onlus “per due scopi principali: primo, sottolinea Valerio , è un ente anonimo, secondo, la movimentazione di denaro non suscita sospetto in quanto non viene fatta a fini di lucro”. Almeno formalmente.
Un caso concreto
Una di queste era la Fondazione Cavaliere Dino Leone, che aveva i conti in Puglia presso “Banca prossima” e doveva servire per ricevere, via Brasile, una “donazione” di 300 milioni proveniente da conti off shore catalogati nei “Panama Papers”, il fascicolo digitalizzato composto da 11,5 milioni di documenti confidenziali su oltre 214 mila conti off shore, spesso riferibili a organizzazioni criminali, messo insieme fin dagli anni Settanta dallo studio panamense Mossack Fonseca e nel 2015 finito nelle mani di giornalisti di tutto il mondo. Le menti dell’operazione si trovavano in Germania: lì lavoravano Goke, per gli investigatori “fulcro del gruppo di trader tedeschi”, Mair (non indagato in Italia), immobiliarista e faccendiere tedesco con ampio portafoglio di contatti “che fungeva da raccordo con altri broker clandestini che operavano a Panama e in Brasile” e Marco Cordovado (non indagato in Italia), incaricato di mantenere i contatti con altri trader, solo in parte identificati, che operavano in Germania, Panama e Brasile. Altro anello della catena per quell’affare erano “receiver facilitator”. Allo stato, nessuno di loro risulta indagato ma il Ros li identifica in Maurizio Medici, Gaetano D’Amore e Ivano Melchionda “incaricati di individuare le persone fisiche e giuridiche in grado di ricevere il denaro e di sistemare carte e documenti perché risultasse legale”, si legge nelle carte. Alla fine c’erano i receiver, Osvaldo Catucci e Leonardo Leone (non indagati) rappresentanti di quella fondazione che avrebbe dovuto ricevere il denaro. Altro elemento fondamentale sono i sender, spesso funzionari e dirigenti di banca corrotti, i b.o. li chiamano in gergo, in grado di avviare il processo. Si tratta di elementi fondamentali per consentire ai clan di portare a termine vari tipi di truffe: “dall’estrapolazione di denaro dai conti dormienti, fino all’ottenimento di sconti e castelletti bancari con assegni falsi, che vengono comunque liquidati”.
“Il direttore di banca compiacente conosce il rischio a cui va incontro, ma l’alta remunerazione di queste operazioni, lo convince a trovare più conveniente essere licenziato che perdere il guadagno”. E se fosse successo il direttore di banca corrotto sarebbe potuto essere ancora una risorsa per i criminalialmeno stando a quanto assicura intercettato Salvatore Aracri, che con Goke sognava in grande: “Apriamoci una bella banca tutta per noi. Questo è più importante di tutte le altre cose. Insieme al leader della banca Hsbc possiamo trafficare quando vogliamo”. Nelle carte dell’inchiesta Glicine si legge che Aracri era sicuro di poter cooptare nell’impresa anche il banchiere tedesco Heinz-Martin Humme, in passato presidente del Consiglio della Stadtsparkasse di Düsseldorf, accusato di corruzione e destituito. “Questo qua ha concesso diversi crediti che poi sono scoppiati e ha perso il suo lavoro. Ma è l’unico che ha una licenza bancaria e la licenza bancaria è indispensabile affinché la banca possa essere operativa. E questo qua ce l’ha, lo hanno licenziato ma non gli hanno ritirato la licenza bancaria. Infatti mi aveva detto che se mai avessi avuto una banca sottomano di farglielo sapere e che avrebbe ben volentieri accettato”.
È la conferma di uno degli scenari che più preoccupa inquirenti e investigatori, da tempo convinti che i clan di ‘ndrangheta , tutti, non solo i crotonesi , abbiano in mano finanziarie e istituti di credito.
Le piattaforme clandestine
Le piattaforme finanziarie sono uno spazio virtuale , che permette all’utente di acquistare o vendere bond, titoli di Stato, oro, petrolio, azioni. In quelle legali ci sono i controlli su chi effettua le operazioni. I magistrati stanno cominciando a intravedere il mondo delle piattaforme clandestine, dove nessuno effettua controlli sull’origine dei fondi e “che generano tra il 70 e l’80 per cento di interessi settimanali rispetto all’investimento effettuato che , spiega il collaboratore Signifredi, deve essere di almeno dieci milioni di euro”. Sono pochissime, solo cinque, e sono in mano ad altrettanti broker. I loro nomi Signifredi non li sa, ma agli inquirenti dà una pista per rintracciarli: sono i faccendieri che sono in grado di contattarli. “Vincenzo Nocera, di origine siciliana, un arabo conosciuto a Parma con il nome di Nabil, sulla piazza di Torino, tale ingegnere Giancarlo Mongarli, mentre sulla piazza di Trento conosco tale Renzo Foladori».
La ‘Ndrangheta riesce ad operare tramite esse per pulire in suo tesoro perché è conosciuta la sua enorme disponibilità di denaro e la serietà dei componenti”. “Si conferisce oro, prodotti finanziari, anche titoli storici di ingente valore”– spiega Valerio, -“Posso citarvi il cosiddetto “Black Eagle” emesso dagli Usa nel ‘900. Tali titoli vengono autenticati da notai appositi e conferiti agli istituti bancari come Ubs, City Bank e Hsbc”. Con bond e titoli di Stato italiani e esteri, persino buoni postali , veri, falsi, verosimili , la ‘ndrangheta traffica da tempo. Ma il paniere però è composto per lo più da bond fresh, obbligazioni in teoria destinate esclusivamente ad investitori istituzionali.
Le risultanze dell’inchiesta Glicine confermerebbe le parole del pentito: “Tra agosto e ottobre 2019 gli indagati, sintetizza il gip, tentavano di effettuare un’operazione finanziaria illegale, rientrando in possesso di un flusso di denaro proveniente da una “piattaforma di trading clandestina””. Valore dell’operazione, 120 milioni da trasferire dal Sud Est asiatico all’Europa. Un’altra operazione è del mese successivo, ma è andata a buon fine solo per metà: 49 milioni di euro scaricati e bonificati poi su una serie di conti svizzeri gestiti da Lorenzo Colombo (allo stato non indagato ndr), trader del gruppo “Centi”, un’altra filiera di trader, broker, facilitatori e receiver che non avrebbe esitato a mettersi al servizio della ‘ndrangheta. Che forse però è già andata oltre. Perché a un potenziale investitore mai individuato, Nicolino Grande Aracri dopo aver garantito di poter addirittura assicurare linee di credito agli Stati, giurava: «La piattaforma sono io».